lunedì, aprile 23

In silenzio, fra Nisargadatta Maharaj e Madre Teresa

Il silenzio è uno dei suoni più importanti, sicuramente il più usato nella musica e nel parlare, visto che è posto fra una nota e l’altra, fra una parola e quella che segue, con spazio variabile. Il silenzio è la condizione nella quale più spesso ci ritroviamo o ci troviamo per scelta. Ovvio che non si debba confondere il silenzio con il mutismo o il tacere, con lo stare zitti, che è tutt’altro; è la definizione negativa del silenzio. Nella mia immaginazione il silenzio è la condizione nella quale si è predisposti ad ascoltare sé stessi e lo spazio che abbiamo intorno, che può essere fatto di persone, di panorami, ma anche di buio o di altro silenzio. Nelle lunghe girate in bici è lo stato più bello e intenso. Spesso mi chiedono con chi faccia le uscite su due ruote. Alla risposta “pochissime, ma la gran parte delle volte sono da solo”, qualcuno storce la bocca, come se anche il solo iniziare a pedalare in solitudine sia qualcosa di innaturale o addirittura pericoloso. Forse è entrambe le cose o forse è ciò che di più lontano da esse possa esistere. E’ bello ascoltare la natura. Nel silenzio si possono sentire mille rumori, vedere cose che altrimenti sarebbero invisibili o quantomeno nascoste dal rumore delle parole. Nel silenzio non si può fingere né mentire a se stessi. Mi vengono in mente alcuni pensieri di persone molto più sagge di me che meglio hanno definito questa dimensione, trovando nel silenzio due equilibri molto diversi fra di loro, ma ugualmente stabili. L’indiano Nisargadatta Maharaj pensava: “Nessun particolar pensiero può essere lo stato naturale della mente, solo il silenzio. Nessuna idea di silenzio, ma il silenzio stesso. Quando la mente è in uno stato naturale, essa volge naturalmente al silenzio dopo ogni esperienza e ciascuna esperienza viene vissuta sullo sfondo del silenzio”. L’equilibro trovato dentro di noi è invece dato dal trascendente esterno a noi, secondo Madre Teresa di Calcutta: “Noi vogliamo incontrare Dio, egli non può essere trovato nel rumore e nella confusione. Dio è amico del silenzio. Guarda come la natura, alberi, fiori, erba cresce in silenzio; guarda le stelle, la luna ed il sole, come loro si muovono in silenzio…noi abbiamo bisogno di silenzio per essere capaci di toccare anime”. Per sfortuna nessuno di noi ha la saggezza di Madre Teresa o di Nisargadatta Maharaj, ma è anche il bello dell’imperfezione di noi esseri umani, perché tutto questo offre la possibilità di mettersi in cammino o di pedalare alla ricerca della nostra definizione di equilibrio e di silenzio. Ho voglia di andare in bici, la pioggia e l’inedia di questi giorni mi ha già annoiato. Le previsioni dicono che arriverà caldo e sole. Attenderò.


giovedì, aprile 19

Le notti lunghe e la pioggia clemente

Da buon “grasso nell’anima”… basta una settimana di pioggia per riprendere un chilo o due perso in un mese di stenti. E’ così, cosa ci possiamo fare? Nulla direi… se non attendere il prossimo fine settimana, annunciato con il tempo clemente. Vedremo se sarà clemente e soleggiato per i ciclisti, o clemente umido e bagnato per gli agricoltori. Le attese sono una parte molto importante del viaggio e del pedalare. Qualcuno molto più saggio di me ha detto che “Un viaggio inizia quando cominci a pensarlo e termina quando smetti di ricordarlo”. A causa della mia ignoranza, non chiedetemi l’autore. In ogni caso credo che sia un pensiero abbastanza scopiazzato e partito da chissà dove o da chissà chi. Questa interpretazione l’ho presa da Marco Parrini, un bravo ciclonauta. Sintetizza benissimo anche il mio pensiero. L’attesa può essere più o meno lunga. Può iniziare in una notte insonne nella quale pensi al prossimo viaggio, alla strada che ti aspetta o che credi ti possa fare qualche regalo importante. Forse è proprio in questi momenti che si sceglie il “viaggio”. Nasce dal pensiero, si concretizza nell’attesa e si cementificherà con il ricordo. Si parte verso un luogo perché si immagina che qualcosa di bello sia là ad attenderci, senza sapere come e cosa sia tutto ciò. L’istinto accende la scintilla come una pietra focaia, l’attesa ci da emozione, la curiosità dell’ignoto le motivazioni per partire. Non è necessario andare lontano. Spesso le cose veramente belle sono quelle più vicine a noi. Il tempo, la pazienza e la ricerca ce le faranno scoprire all’improvviso e come un lampo tutto quello che pensavamo di conoscere bene avrà una luce diversa. Basta camminare per le strade della nostra città, qualunque essa sia, dando una diversa angolazione alla testa e agli occhi per vedere cose ed una realtà completamente diversa da quella che eravamo sicuri di conoscere. Forse non è una gran virtù avere troppe certezze, senza la predisposizione mentale a modificarle o scoprirne di nuove. Ha ragione Proust quando dice “L'unico vero viaggio verso la scoperta non consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi”. E’ un discorso lungo, un poco retorico e stupido e lo finisco qua. La notte è quasi alla fine e fra poco arriverà il sole e la luce.



La foto è stata presa dall'album di Flickr di Pablo Tenorio http://www.flickr.com/people/pablotenorio/. Non lo conosco affatto, ma l'immagine mi piace molto.

venerdì, aprile 6

Monte Luco, la cima Coppi dei ciclonauti "buzziconi"

Per noi ciclonauti dei fine settimana (non freddi), il Monte Luco rappresenta una specie di mito, la cima Coppi della provincia di Siena, la Scala delle salite, se fatta dal lato di Nusenna, una strada capace di dare dei picchi di autostima importanti se adeguatamente percorsa. Forse saranno gli alberoni che si trovano negli ultimi chilometri, oppure la neve che lo copre per quasi tutto l’inverno, se guardato da Siena. Tutto lo fa sembrare un piccolo monte dell’Appennino. Certamente è uno dei punti più belli e meno conosciuti (e frequentati) della provincia di Siena. Ancora nella stagione 2012 non sono mai riuscito ad arrivare al passo, dove sono i ripetitori della Rai. Ancora sono un poco "buzzicone". Ho fatto un paio di “attacchi”, ma a Castagnoli ho “virato” verso Siena: “E’ tardi, dovevo partire prima, fatti due conti torno a casa che è buio”, ho trovato come scusa rimuginando fra me e me. Sono circa 10 chilometri, dai 330 metri di Gaiole, fino ai circa 700 del passo. La cosa più bella di questa salita è che consente di “pensare”. E’ lineare nel salire, senza strappi che saturano le gambe di acido lattico. Proprio per questo si può prendere il passo che più si adatta alla forma del momento e lasciarsi andare, pedalando e pensando. Ogni tanto dietro a qualche curva si vedono le antenne e sembrano così vicine che l’erta pare finita. Ma così non è ed è proprio qui che risiede il fascino di questa strada. 40-50 minuti di vero piacere, con i pensieri ed i sogni che possono fare il giro della mente e tornare nel cassetto dal quale erano usciti. Al passo c’è un piccolissimo locale, patria di qualche motociclista che si è tolto la soddisfazione di farsi tutti i lunghi tornanti. La discesa non è meno affascinante della salita. In un punto si vede a destra la provincia di Siena, a sinistra il Valdarno ed il Pratomagno. Ci sono passato molte volte, ma la bellezza della zona mi sorprende sempre ed in ogni occasione noto un particolare che prima non mi aveva colpito. Dieci minuti di discesa, fatta senza correre, ed appare San Gusmé, poi Rapolano e Crete in lontananza, con Radicofani e Montalcino. Ho pensato molte volte al Monte Luco, una delle “case” della bellezza. Ci devo tornare presto, so che c’è sicuramente uno spicchio di paesaggio sconosciuto che mi aspetta.

Oggi, 6 aprile sono tre anni dal terribile terremoto de L’Aquila, una tragedia tremenda, sotto tutti i punti di vista. Cosa c’entra con questo post? Poco, sicuramente. Ma il Monte Luco mi ha dato uno spunto. Ad un chilometro circa dal passo c’è un incrocio che porta a Starda. Vicino c’è un cartello che indica L’Aquila, località omonina a quella martoriata dalla natura prima e dagli uomini poi. Tutto questo mi da modo di ricordare la tragedia che ha colpito il fiero popolo abruzzese. Gioia e dolore intersecati fra di loro, come sempre nella vita, nell’eterno viaggio dell’Uomo.







martedì, aprile 3

John, due amici di Roma e l'abadía Benedictina de Samos


Il bello della sera è che possiamo abbandonarci ai nostri pensieri, alle nostre passioni, ripensando ad alcune cose che durante il giorno ci sono passate davanti agli occhi o nella mente, ma non abbiamo avuto il tempo di fermarci e “stare un poco con loro”. E’ appena finito il mio telefilm preferito ed il mio pensiero torna alla Cruz de hierro. Erano i primi giorni dell’agosto 2006, sul Cammino di Santiago, un caldo tremendo, dieci giorni che hanno cambiato in parte la mia vita, quantomeno il modo di vederla e di conseguenza viverla. Ho ripensato a John, forse si chiamava così. Era un attempato signore americano, seduto su una panchina di fronte alla Cruz. Arrivai dove è posto questo simbolo dopo una salita “concreta”, abbastanza stanco, non sapendo quello che avrei trovato o visto. Feci la foto di rito, poi mi chiesi cosa fosse quella montagna di oggetti e pietre. Oggi farei il scelte inverse, ma questa è un’altra storia. John mi disse che là dovevamo lasciare tutti gli oggetti inutili che ci eravamo portati con noi lungo il Cammino. Da lì a pochi chilometri ci sarebbe stato il Cebreiro ed ogni grammo risparmiato sarebbe stato prezioso. Mi sembrava una frase senza senso. Ero forte così e non avevo con me nulla di superfluo. Dopo qualche mese, o forse qualche anno, ho capito quello che intendeva il saggio John, faccia pulita, barba fatta, capelli brizzolati e ordinati. Non gli chiesi chi fosse, mi disse solo che veniva dagli “United States”, dagli Usa. “Qua dobbiamo lasciare il superfluo del viaggio”, mi disse ancora quando gli chiesi cosa ci facessero libretti universitari, oggetti, pupazzi e tantissime altre cose. “Certo John, ma con me ho solo gli oggetti necessari per il viaggio”. Guardò la mia bici e mi disse ridendo che avevo almeno due bagagli in più del necessario. Forse era vero, avevo quattro borse, adesso viaggio con le sole due posteriori, più una anteriore. Posso migliorare. “Ok, buen Camino, my friend”, mi disse in segno di saluto. Passato il Cebreiro, trascorsi la notte a Samos, dove c’è un fantastico monastero benedettino. Ritrovai là una coppia di amici di Roma che avevo già trovato vicino Pamplona. Un autentico mistero. Loro a piedi, io in bici, ma il destino casualmente ci faceva trovare ancora. Ci sarà un terzo incontro, all’aeroporto di Santiago mentre prendevamo l’aereo. Sono nelle foto del video che ho messo su You Tube, chissà se torneremo in contatto. Non so come si chiamano, non ricordo. Il numero di telefono o la mail non ce la siamo scambiata. Sapevamo che scrivendoci i recapiti forse ci saremmo detti meno cose della nostra vita di quanto stavamo facendo. E’ il bello del viaggio. Racconti cose molto intime a chi incontri, forse perché sai che non lo ritroverai mai più. La sera mangiammo in una trattoria per pellegrini, quelle che a cinque euro, massimo sette, ti fanno stare alla grandissima. Chi ha fatto il Cammino sa quello che intendo. Bevemmo “vinto tinto” in abbondanza, una bottiglia in tre. Era molto buono, della Rioja, bella regione della Spagna attaccata alla Navarra. Forse ci aiutò a parlare liberamente nell’ora successiva. Andammo vicino al torrente che scorre vicino al monastero e mettemmo i piedi nell’acqua fredda. Loro avevano camminato, io pedalato, tutti e tre bevuto in armonia e quell’acqua fresca ci ritemprava. Gli chiesi cosa avessero lasciato alla Cruz de hierro. Lui mi disse che aveva lasciato uno dei due bracciali che portava da sempre al polso. Mi disse che ne avrebbe comperato un altro d’oro al ritorno, per ricordarsi sempre che portava i bracciali non perché “portavano bene”, ma solo perché erano belli. E’ un passaggio mentale particolare. Aveva lasciato sulla Cruz de hierro una parte di sé, o quantomeno quella che riteneva fosse una parte di sé. “E te Lello cosa hai lasciato?”, mi chiese lei. “Qualche pensiero inutile che alle volte mi passa per la testa”, gli risposi, giusto per fare bella figura con una frase d’effetto. In pratica non ci avevo lasciato nulla, ma solo nella discesa realizzai tutto questo. Tornerò a Santiago, tornerò sul Cammino, magari in compagnia o forse da solo. Alla Cruz de hierro mi soffermerò. Non so cosa lascerò là sotto. Forse nulla, forse qualche pensiero, forse un oggetto di qualche amico che mi chiederà di mollarlo là sotto. Ogni metro di strada fatta, ogni secondo della vita, non ti lascia mai uguale al precedente, benché quasi sempre in modo impercettibile. Ti lascia migliore, in quanto più ricco d’esperienza. Purtroppo, o per fortuna, a questo nostro “eterno viaggiare” alla ricerca di noi stessi o del senso della vita, non c’è mai fine, alternando le nostre esperienze fra il bianco ed il nero, muovendoci da est a ovest, da nord a sud, sempre alla ricerca di qualcosa che neppure sappiamo di cercare. La cosa importante è sorprendersi sempre, aver sempre voglia di tornare sotto una Cruz de hierro e lasciare un orpello inutile della vita che ci portiamo dietro, perché poi arriverà sempre una salita che richiederà di essere “leggeri” per affrontarla, senza avere come zavorra oggetti o preconcetti che potranno solo appesantire il nostro passo. Forse nasciamo con mille personalità dentro di noi, poi la vita ci offre l’occasione di “cacciare” tutto ciò che non è parte di quello che realmente siamo, affinché si possa arrivare ad un secondo prima della fine del viaggio, o un secondo dopo iniziando il nuovo, non essendo più “molti uomini”, ma un uomo solo. E’ l’infinito, brutto o bello, amaro e dolcissimo, cammino della vita. E’ un poco patetico e retorico questo post, ma chi mi conosce sa bene che il Cammino di Santiago mi ha reso un poco “strullo”, ma va bene così. “Viaggerò” ancora, sempre, non per vedere paesaggio nuovi, ma per trovare la parte di me stesso che la “bellezza” di ciò che vedrò riuscirà a farmi scoprire. Non importa che il nuovo paesaggio sia uno scorcio di quello che vedo dalla finestra di casa o la Cruz de hierro. Importante sarà lo spirito con cui guarderò ciò che avrò davanti o dentro di me. 

Nella foto uno scorcio della Real Abadía Benedictina de Samos con il piccolo torrente che le scorre vicino e intorno.



Viaggi solitari e la Cruz de hierro

“Il viaggio parte quando inizi a pensarlo”, sostiene il mio amico Fabio, citando una frase forse di qualcun’altro. Niente di più vero. In questi giorni di sole ho pedalato per le nostre bellissime strade ed ho avuto modo di riflettere sul prossimo viaggio che vorrei fare con la bici. Mi piacerebbe farlo da solo, visto che sono almeno cinque anni che non viaggio così. Molte le tappe italiane che mi affascinano, le vie che mi allontanano e poi mi ricondurranno a Siena, che dovrà necessariamente essere la tappa di arrivo, dove ho la mia vita ed i miei affetti. Ma questa è un’altra storia da raccontare. Viaggiare in bici, con le borse al seguito, è un’emozione diversa da qualunque altro “muoversi”, almeno nella mia testa. Le motivazioni del perché si parte le ha ben descritte il grandissimo Paolo Rumiz, un autore che vi consiglio di leggere. E’ molto più saggio di me ed ha descritto in modo mirabile certi sentimenti, le ragioni che portano a “partire” per il Viaggio, non un viaggio qualsiasi, ma il Viaggio, che può ripetersi anche tante volte: “Difficile diventare adulti se non si fa un viaggio da soli. E' un modo per superare la paura dell’altro e anche di sé stessi, in cui ci si trova a fronteggiare la nostalgia, si arriva alla riscoperta delle radici. Finché non fai un viaggio da solo non impari a rapportarti con gli altri”. Per chi non lo conosce il sito http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Rumiz potrà darvi tutte le informazioni. Grazie all’amico Bruno che ha messo questa frase su Facebook qualche giorno fa. 
Nella foto qua sotto ero molto più magro, anche se bellissimo come sempre (scherzo...). Da "laico dubbioso" quale sono è un momento molto importante del mio "viaggiare". E' in Spagna, sul Cammino di Santiago, è la "Cruz de hierro", una montagna di sassi e di oggetti buttati in apparenza a caso sotto un pennone con una croce in alto. In realtà molto è molto di più. La croce ed il gesto di lasciare oggetti ai quali "scaramanticamente" siamo legati sono stati bene definiti da Edo Pedron: "La Cruz de hierro...lasciare i sassi, i pesi che non vuoi riportarti indietro, sulla montagna che cresce di giorno in giorno creata dai tanti pellegrini che lasciano qui i loro limiti". Forse tutto ciò si lega bene anche al pensiero di Rumiz dal quale ero partito...