Il silenzio è uno dei suoni più importanti, sicuramente il più usato
nella musica e nel parlare, visto che è posto fra una nota e l’altra, fra una
parola e quella che segue, con spazio variabile. Il silenzio è la condizione
nella quale più spesso ci ritroviamo o ci troviamo per scelta. Ovvio che non si
debba confondere il silenzio con il mutismo o il tacere, con lo stare zitti,
che è tutt’altro; è la definizione negativa del silenzio. Nella mia
immaginazione il silenzio è la condizione nella quale si è predisposti ad
ascoltare sé stessi e lo spazio che abbiamo intorno, che può essere fatto di
persone, di panorami, ma anche di buio o di altro silenzio. Nelle lunghe girate
in bici è lo stato più bello e intenso. Spesso mi chiedono con chi faccia le
uscite su due ruote. Alla risposta “pochissime, ma la gran parte delle volte
sono da solo”, qualcuno storce la bocca, come se anche il solo iniziare a
pedalare in solitudine sia qualcosa di innaturale o addirittura pericoloso.
Forse è entrambe le cose o forse è ciò che di più lontano da esse possa
esistere. E’ bello ascoltare la natura. Nel silenzio si possono sentire mille
rumori, vedere cose che altrimenti sarebbero invisibili o quantomeno nascoste
dal rumore delle parole. Nel silenzio non si può fingere né mentire a se stessi. Mi vengono in mente alcuni pensieri di persone molto
più sagge di me che meglio hanno definito questa dimensione, trovando nel
silenzio due equilibri molto diversi fra di loro, ma ugualmente stabili.
L’indiano Nisargadatta Maharaj pensava: “Nessun particolar pensiero può essere
lo stato naturale della mente, solo il silenzio. Nessuna idea di silenzio, ma
il silenzio stesso. Quando la mente è in uno stato naturale, essa volge
naturalmente al silenzio dopo ogni esperienza e ciascuna esperienza viene
vissuta sullo sfondo del silenzio”. L’equilibro trovato dentro di noi è invece
dato dal trascendente esterno a noi, secondo Madre Teresa di Calcutta: “Noi
vogliamo incontrare Dio, egli non può essere trovato nel rumore e nella
confusione. Dio è amico del silenzio. Guarda come la natura, alberi, fiori,
erba cresce in silenzio; guarda le stelle, la luna ed il sole, come loro si
muovono in silenzio…noi abbiamo bisogno di silenzio per essere capaci di
toccare anime”. Per sfortuna nessuno di noi ha la saggezza di Madre Teresa o di
Nisargadatta Maharaj, ma è anche il bello dell’imperfezione di noi esseri umani,
perché tutto questo offre la possibilità di mettersi in cammino o di pedalare
alla ricerca della nostra definizione di equilibrio e di silenzio. Ho voglia di
andare in bici, la pioggia e l’inedia di questi giorni mi ha già annoiato. Le
previsioni dicono che arriverà caldo e sole. Attenderò.
Raccolta di racconti di emozioni, di bellezza, di vita, di esperienze e di varia umanità.
lunedì, aprile 23
giovedì, aprile 19
Le notti lunghe e la pioggia clemente
Da buon “grasso nell’anima”… basta una settimana di pioggia per
riprendere un chilo o due perso in un mese di stenti. E’ così, cosa ci possiamo
fare? Nulla direi… se non attendere il prossimo fine settimana, annunciato con
il tempo clemente. Vedremo se sarà clemente e soleggiato per i ciclisti, o
clemente umido e bagnato per gli agricoltori. Le attese sono una parte molto
importante del viaggio e del pedalare. Qualcuno molto più saggio di me ha detto
che “Un viaggio inizia quando cominci a
pensarlo e termina quando smetti di ricordarlo”. A
causa della mia ignoranza, non chiedetemi l’autore. In ogni caso credo che sia
un pensiero abbastanza scopiazzato e partito da chissà dove o da chissà chi.
Questa interpretazione l’ho presa da Marco Parrini, un bravo ciclonauta.
Sintetizza benissimo anche il mio pensiero. L’attesa può essere più o meno
lunga. Può iniziare in una notte insonne nella quale pensi al prossimo viaggio,
alla strada che ti aspetta o che credi ti possa fare qualche regalo importante.
Forse è proprio in questi momenti che si sceglie il “viaggio”. Nasce dal
pensiero, si concretizza nell’attesa e si cementificherà con il ricordo. Si
parte verso un luogo perché si immagina che qualcosa di bello sia là ad
attenderci, senza sapere come e cosa sia tutto ciò. L’istinto accende la
scintilla come una pietra focaia, l’attesa ci da emozione, la curiosità
dell’ignoto le motivazioni per partire. Non è necessario andare lontano. Spesso
le cose veramente belle sono quelle più vicine a noi. Il tempo, la pazienza e la
ricerca ce le faranno scoprire all’improvviso e come un lampo tutto quello che pensavamo di conoscere bene avrà una luce diversa. Basta camminare per le
strade della nostra città, qualunque essa sia, dando una diversa angolazione
alla testa e agli occhi per vedere cose ed una realtà completamente diversa da quella che eravamo sicuri di conoscere. Forse non è una gran virtù avere troppe certezze, senza la predisposizione mentale a modificarle o scoprirne di nuove. Ha
ragione Proust quando dice “L'unico vero viaggio verso la scoperta non
consiste nella ricerca di nuovi paesaggi, ma nell'avere nuovi occhi”. E’ un discorso lungo, un poco retorico e stupido e lo finisco qua.
La notte è quasi alla fine e fra poco arriverà il sole e la luce.
La foto è stata presa dall'album di Flickr di Pablo Tenorio http://www.flickr.com/people/pablotenorio/. Non lo conosco affatto, ma l'immagine mi piace molto.
venerdì, aprile 6
Monte Luco, la cima Coppi dei ciclonauti "buzziconi"
Per noi ciclonauti dei fine settimana (non freddi), il Monte
Luco rappresenta una specie di mito, la cima Coppi della provincia di Siena, la
Scala delle salite, se fatta dal lato di Nusenna, una strada capace di dare dei
picchi di autostima importanti se adeguatamente percorsa. Forse saranno gli
alberoni che si trovano negli ultimi chilometri, oppure la neve che lo copre
per quasi tutto l’inverno, se guardato da Siena. Tutto lo fa sembrare un
piccolo monte dell’Appennino. Certamente è uno dei punti più belli e meno
conosciuti (e frequentati) della provincia di Siena. Ancora nella stagione 2012
non sono mai riuscito ad arrivare al passo, dove sono i ripetitori della Rai. Ancora sono un poco "buzzicone".
Ho fatto un paio di “attacchi”, ma a Castagnoli ho “virato” verso Siena: “E’
tardi, dovevo partire prima, fatti due conti torno a casa che è buio”, ho
trovato come scusa rimuginando fra me e me. Sono circa 10 chilometri, dai 330
metri di Gaiole, fino ai circa 700 del passo. La cosa più bella di questa
salita è che consente di “pensare”. E’ lineare nel salire, senza strappi che
saturano le gambe di acido lattico. Proprio per questo si può prendere il passo
che più si adatta alla forma del momento e lasciarsi andare, pedalando e
pensando. Ogni tanto dietro a qualche curva si vedono le antenne e sembrano
così vicine che l’erta pare finita. Ma così non è ed è proprio qui che risiede il fascino di questa strada. 40-50 minuti di vero piacere, con i
pensieri ed i sogni che possono fare il giro della mente e tornare nel cassetto
dal quale erano usciti. Al passo c’è un piccolissimo locale, patria di qualche
motociclista che si è tolto la soddisfazione di farsi tutti i lunghi tornanti.
La discesa non è meno affascinante della salita. In un punto si vede a destra
la provincia di Siena, a sinistra il Valdarno ed il Pratomagno. Ci sono passato
molte volte, ma la bellezza della zona mi sorprende sempre ed in ogni occasione
noto un particolare che prima non mi aveva colpito. Dieci minuti di discesa,
fatta senza correre, ed appare San Gusmé, poi Rapolano e Crete in lontananza, con
Radicofani e Montalcino. Ho pensato molte volte al Monte Luco, una delle “case”
della bellezza. Ci devo tornare presto, so che c’è sicuramente uno spicchio di
paesaggio sconosciuto che mi aspetta.
Oggi, 6 aprile sono
tre anni dal terribile terremoto de L’Aquila, una tragedia tremenda, sotto
tutti i punti di vista. Cosa c’entra con questo post? Poco, sicuramente. Ma il Monte Luco mi ha dato uno spunto. Ad un
chilometro circa dal passo c’è un incrocio che porta a Starda. Vicino c’è un
cartello che indica L’Aquila, località omonina a quella martoriata dalla natura prima e dagli uomini poi. Tutto questo mi
da modo di ricordare la tragedia che ha colpito il fiero popolo abruzzese.
Gioia e dolore intersecati fra di loro, come sempre nella vita, nell’eterno
viaggio dell’Uomo.
martedì, aprile 3
John, due amici di Roma e l'abadía Benedictina de Samos
Il bello della sera è che possiamo abbandonarci ai nostri
pensieri, alle nostre passioni, ripensando ad alcune cose che durante il giorno
ci sono passate davanti agli occhi o nella mente, ma non abbiamo avuto il tempo
di fermarci e “stare un poco con loro”. E’ appena finito il mio telefilm
preferito ed il mio pensiero torna alla Cruz de hierro. Erano i primi giorni
dell’agosto 2006, sul Cammino di Santiago, un caldo tremendo, dieci giorni che
hanno cambiato in parte la mia vita, quantomeno il modo di vederla e di
conseguenza viverla. Ho ripensato a John, forse si chiamava così. Era un
attempato signore americano, seduto su una panchina di fronte alla Cruz.
Arrivai dove è posto questo simbolo dopo una salita “concreta”, abbastanza
stanco, non sapendo quello che avrei trovato o visto. Feci la foto di rito, poi
mi chiesi cosa fosse quella montagna di oggetti e pietre. Oggi farei il scelte
inverse, ma questa è un’altra storia. John mi disse che là dovevamo lasciare
tutti gli oggetti inutili che ci eravamo portati con noi lungo il Cammino. Da
lì a pochi chilometri ci sarebbe stato il Cebreiro ed ogni grammo risparmiato
sarebbe stato prezioso. Mi sembrava una frase senza senso. Ero forte così e non
avevo con me nulla di superfluo. Dopo qualche mese, o forse qualche anno, ho
capito quello che intendeva il saggio John, faccia pulita, barba fatta, capelli
brizzolati e ordinati. Non gli chiesi chi fosse, mi disse solo che veniva dagli
“United States”, dagli Usa. “Qua dobbiamo lasciare il superfluo del viaggio”,
mi disse ancora quando gli chiesi cosa ci facessero libretti universitari,
oggetti, pupazzi e tantissime altre cose. “Certo John, ma con me ho solo gli
oggetti necessari per il viaggio”. Guardò la mia bici e mi disse ridendo che
avevo almeno due bagagli in più del necessario. Forse era vero, avevo quattro
borse, adesso viaggio con le sole due posteriori, più una anteriore. Posso
migliorare. “Ok, buen Camino, my friend”, mi disse in segno di saluto. Passato
il Cebreiro, trascorsi la notte a Samos, dove c’è un fantastico monastero
benedettino. Ritrovai là una coppia di amici di Roma che avevo già trovato
vicino Pamplona. Un autentico mistero. Loro a piedi, io in bici, ma il destino
casualmente ci faceva trovare ancora. Ci sarà un terzo incontro, all’aeroporto di Santiago
mentre prendevamo l’aereo. Sono nelle foto del video che ho messo su You Tube,
chissà se torneremo in contatto. Non so come si chiamano, non ricordo. Il numero
di telefono o la mail non ce la siamo scambiata. Sapevamo che scrivendoci i
recapiti forse ci saremmo detti meno cose della nostra vita di quanto stavamo
facendo. E’ il bello del viaggio. Racconti cose molto intime a chi incontri,
forse perché sai che non lo ritroverai mai più. La sera mangiammo in una
trattoria per pellegrini, quelle che a cinque euro, massimo sette, ti fanno stare
alla grandissima. Chi ha fatto il Cammino sa quello che intendo. Bevemmo “vinto
tinto” in abbondanza, una bottiglia in tre. Era molto buono, della Rioja, bella
regione della Spagna attaccata alla Navarra. Forse ci aiutò a parlare liberamente
nell’ora successiva. Andammo vicino al torrente che scorre vicino al monastero
e mettemmo i piedi nell’acqua fredda. Loro avevano camminato, io pedalato, tutti
e tre bevuto in armonia e quell’acqua fresca ci ritemprava. Gli chiesi cosa
avessero lasciato alla Cruz de hierro. Lui mi disse che aveva lasciato uno dei
due bracciali che portava da sempre al polso. Mi disse che ne avrebbe comperato
un altro d’oro al ritorno, per ricordarsi sempre che portava i bracciali non
perché “portavano bene”, ma solo perché erano belli. E’ un passaggio mentale
particolare. Aveva lasciato sulla Cruz de hierro una parte di sé, o quantomeno
quella che riteneva fosse una parte di sé. “E te Lello cosa hai lasciato?”, mi
chiese lei. “Qualche pensiero inutile che alle volte mi passa per la testa”,
gli risposi, giusto per fare bella figura con una frase d’effetto. In pratica
non ci avevo lasciato nulla, ma solo nella discesa realizzai tutto questo.
Tornerò a Santiago, tornerò sul Cammino, magari in compagnia o forse da solo. Alla Cruz de hierro mi soffermerò. Non so cosa lascerò
là sotto. Forse nulla, forse qualche pensiero, forse un oggetto di qualche
amico che mi chiederà di mollarlo là sotto. Ogni metro di strada fatta, ogni
secondo della vita, non ti lascia mai uguale al precedente, benché quasi sempre
in modo impercettibile. Ti lascia migliore, in quanto più ricco d’esperienza.
Purtroppo, o per fortuna, a questo nostro “eterno viaggiare” alla ricerca di
noi stessi o del senso della vita, non c’è mai fine, alternando le nostre
esperienze fra il bianco ed il nero, muovendoci da est a ovest, da nord a sud,
sempre alla ricerca di qualcosa che neppure sappiamo di cercare. La cosa importante
è sorprendersi sempre, aver sempre voglia di tornare sotto una Cruz de hierro e
lasciare un orpello inutile della vita che ci portiamo dietro, perché poi arriverà
sempre una salita che richiederà di essere “leggeri” per affrontarla, senza avere
come zavorra oggetti o preconcetti che potranno solo appesantire il nostro
passo. Forse nasciamo con mille personalità dentro di noi, poi la vita ci offre
l’occasione di “cacciare” tutto ciò che non è parte di quello che realmente
siamo, affinché si possa arrivare ad un secondo prima della fine del viaggio, o
un secondo dopo iniziando il nuovo, non essendo più “molti uomini”, ma un uomo
solo. E’ l’infinito, brutto o bello, amaro e dolcissimo, cammino della vita. E’
un poco patetico e retorico questo post, ma chi mi conosce sa bene che il
Cammino di Santiago mi ha reso un poco “strullo”, ma va bene così. “Viaggerò”
ancora, sempre, non per vedere paesaggio nuovi, ma per trovare la parte di me
stesso che la “bellezza” di ciò che vedrò riuscirà a farmi scoprire. Non importa
che il nuovo paesaggio sia uno scorcio di quello che vedo dalla finestra di
casa o la Cruz de hierro. Importante sarà lo spirito con cui guarderò ciò che
avrò davanti o dentro di me.
Nella foto uno scorcio della Real Abadía Benedictina de Samos con il piccolo torrente che le scorre vicino e intorno.
Viaggi solitari e la Cruz de hierro
“Il viaggio parte quando inizi a pensarlo”, sostiene il mio amico Fabio,
citando una frase forse di qualcun’altro. Niente di più vero. In questi giorni
di sole ho pedalato per le nostre bellissime strade ed ho avuto modo di
riflettere sul prossimo viaggio che vorrei fare con la bici. Mi piacerebbe
farlo da solo, visto che sono almeno cinque anni che non viaggio così. Molte le tappe italiane che mi affascinano, le vie che mi allontanano e poi mi
ricondurranno a Siena, che dovrà necessariamente essere la tappa di arrivo, dove ho la mia vita ed i miei affetti. Ma
questa è un’altra storia da raccontare. Viaggiare in bici, con le borse al
seguito, è un’emozione diversa da qualunque altro “muoversi”, almeno nella mia testa. Le
motivazioni del perché si parte le ha ben descritte il grandissimo Paolo Rumiz,
un autore che vi consiglio di leggere. E’ molto più saggio di me ed ha
descritto in modo mirabile certi sentimenti, le ragioni che portano a “partire”
per il Viaggio, non un viaggio qualsiasi, ma il Viaggio, che può ripetersi anche tante volte: “Difficile diventare
adulti se non si fa un viaggio da soli. E' un modo per superare la paura
dell’altro e anche di sé stessi, in cui ci si trova a fronteggiare la
nostalgia, si arriva alla riscoperta delle radici. Finché non fai un viaggio da
solo non impari a rapportarti con gli altri”. Per chi non lo conosce il sito http://it.wikipedia.org/wiki/Paolo_Rumiz
potrà darvi tutte le informazioni. Grazie all’amico Bruno che ha messo questa
frase su Facebook qualche giorno fa.
Nella foto qua sotto ero molto più magro, anche se bellissimo come sempre (scherzo...). Da "laico dubbioso" quale sono è un momento molto importante del mio "viaggiare". E' in Spagna, sul Cammino di Santiago, è la "Cruz de hierro", una montagna di sassi e di oggetti buttati in apparenza a caso sotto un pennone con una croce in alto. In realtà molto è molto di più. La croce ed il gesto di lasciare oggetti ai quali "scaramanticamente" siamo legati sono stati bene definiti da Edo Pedron: "La Cruz de hierro...lasciare i sassi, i pesi che non vuoi riportarti
indietro, sulla montagna che cresce di giorno in giorno creata dai tanti
pellegrini che lasciano qui i loro limiti". Forse tutto ciò si lega bene anche al pensiero di Rumiz dal quale ero partito...
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